Menu utente

mod_vvisit_countermod_vvisit_countermod_vvisit_countermod_vvisit_countermod_vvisit_countermod_vvisit_countermod_vvisit_counter
mod_vvisit_counterOggi1249
mod_vvisit_counterIeri329
mod_vvisit_counterQuesta Settimana2052
mod_vvisit_counterUltima Settimana1106
mod_vvisit_counterQuesto Mese5594
mod_vvisit_counterUltimo Mese3313
mod_vvisit_counterTotale1344316

We have: 3 guests online
Your IP: 3.138.174.174
Mozilla 5.0, 
Today: Apr 26, 2024
Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Banner

Banner
Tema Pastorale 2012 PDF Stampa E-mail
Scritto da Administrator   
Lunedì 07 Novembre 2011 21:14

Presentazione Tema Pastorale 2012

Pregare il Rosario con Bernadette

È l’avventura del cristiano quella di respirare all’unisono col suo Creatore, battito vitale che si inerpica sui viottoli dell’esistenza e tesse la trama del suo divenire; e la preghiera è come grembo verginale, alveo sempre fresco dal quale sembra riecheggiare la premura del Cristo perché ogni vivente possa approdare alle delizie celesti: Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria , quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo (Gv 17,24)
Pregare è un po’ così: avere orizzonti e sentimenti vasti sui quali incontrare gli occhi di Dio e fidanzarli con quelli dell’uomo, perché dall’innamoramento reciproco possa scaturire sempre vita feconda. Pregare insomma è radicarsi nel giardino nuovo (Gv 19,14), come seme buono che penetra nella terra e attende fiducioso le prime luci dell’alba (Mt 28,1). Ma la preghiera non astrae dal contesto quotidiano, non prescinde dalle ordinarie preoccupazioni, non esula da una creazione che soffre e geme le doglie del parto . Semmai qualifica ogni istante del nostro tempo dirompendo squarci di eternità. In una parola è Gesù che cerchiamo quando speriamo e sogniamo il meglio per noi , è la sua esperienza che rende sapido il nostro pregare , è il memoriale della sua vita il senso del nostro tendere le mani verso il cielo. Percorre il filo che unisce ogni singolo minuzzolo della sua vita è come ritrovare il collante per le nostre vite, a volte così frantumate e offuscate, ma comunque sempre desiderose di essere ricapitolate in Colui che viene . La Vergine Maria è madre di questo pellegrinaggio, timoniera zelante che ci precede verso acque placide, dispensatrice e consigliera che magnifica la voce del Figlio e invita a fare quello che ci dirà (Gv 2,5) . Non sorprende dunque che sia proprio lei ad accompagnare il cammino dell’uomo, prolungando la voce del Figlio nei meandri della storia , come narciso che effonde rugiade di benedizioni, come fontana sigillata che irrora i gigli rinfrancandoli dai cardi della vita . È sempre lei che nella quiete del cuore custodisce il respiro del Figlio (Lc 2,19), un respiro che blandisce le mura di Nazaret e mai smette di alitare i palpiti della mangiatoia, un respiro che rallenta fino a diventare amara esalazione sul palo maledetto, per poi farsi vento nuovo e sospiro di sollievo nel vincolo mirabile del cenacolo. Ogni fazzoletto della terra percorsa da Gesù ancora vive quello stesso respiro e Maria invita ogni credente a inalarsene le narici; da madre premurosa qual è non disdegna di volgere i suoi occhi sulle creature misere – e talvolta miserabili – guardandole invece come persone , portando un lampo di cielo in una grotta fetida . Bernadette è tutta protesa verso la Signora senza macchia, i piedi annegati nell’acqua gelida sembrano già cogliere la direzione del nuovo andare; ora le sue mani non afferrano più la legna ma i grani bianchi di una corona, segni di un amore che anche una “buona a niente” può percorrere ; poi la “scopa” usata dalla Vergine viene riposta dietro la porta perché chiunque pregherà il Rosario con Bernadette possa scoprire l’umiltà del vero servizio.


Mons. Luigi Marrucci
Assistente Nazionale Unitalsi

Don Danilo Priori
Viceassistente Nazionale Unitalsi

 

 

 

SCHEDA 1: LA GIOIA

1.1. La gioia nella Bibbia

 

«Il cristianesimo è stato un’esplosione di gioia, ed è ancora oggi per ogni anima entusiasmo di vivere … Chi non trasale fino in fondo al suo essere, scosso da questa novità, non è cristiano».

Queste parole dell’esegeta belga L. Cerfaux ci fanno comprendere quanto la dimensione della gioia sia essenziale alla fede cristiana. Il cristianesimo è intrinsecamente contrassegnato dalla gioia, in quanto esso è vangelo, cioè lieto annunzio dell’alleanza d’amore di Dio con gli uomini in Cristo morto e risorto.

Il cammino della gioia, che ha il suo compimento nel Mistero di Cristo, parte da lontano. Esso è stato preparato da Dio nel corso della storia della salvezza, come ci testimoniano le Sacre Scritture.

Il dato più evidente da cui prendere le mosse è indubbiamente questo: sempre nella Bibbia la gioia presenta un orizzonte marcatamente teologico: Dio stesso è la fonte della gioia. Di conseguenza, l’uomo che è strutturalmente domanda di felicità, domanda di gioia, può trovare solo in Dio il compimento di questa domanda e di questo desiderio.

Molto evidenti in tal senso (tra le tante possibili) le seguenti citazioni del libro dei Salmi:

- Sal 33,21: «È in lui (= in Dio) che gioisce il nostro cuore, nel suo santo nome noi confidiamo».

- Sal 37,4: «Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore».

- Sal 104,34: «A lui (= a Dio) sia gradito il mio canto, io gioirò nel Signore».

 

Andando più nei dettagli, ferma restando la matrice fortemente teologica della gioia “biblica”, essa si articola in tre linee:

a) è fonte di gioia la Parola di Dio (cf., tra gli altri testi, Ger 15,16);

b) è fonte di gioia la Torah, cioè la Legge (cf. spec. Sal 119,14.16.111.143.162; Ne 8,16);

c) più d’ogni cosa, sarà fonte di gioia la venuta del Messia (cf. spec. Is 9,2: «hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia).

La gioia piena legata alla venuta del Messia è dovuta al fatto che egli, l’Unto del Signore rinnoverà, portandola a compimento, la gioia dell’Esodo, attirando a sé in quest’esplosione di gioia tutte le creature: non solo tutti i popoli della terra (cf. Is 2,2-5; Zc 8,20-23; 9,9-10) ma anche i cieli, le montagne, il deserto, le profondità della terra, le foreste (cf. Is 35,1-10).

Generalmente, nell’Antico Testamento la gioia è descritta in termini molto concreti e legati a situazioni ed esperienze proprie della vita terrena. In alcuni testi, si affaccia, però, la coscienza del fatto che la gioia derivante dalla comunione con il Signore non può essere limitata all’ambito della vita terrena ma si estende al di là della morte.

Così il testo di Sal 16,11: «Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra».

In questo passo, si vede chiaramente non solo che il nucleo della beatitudine, la sorgente della gioia è totalmente teologico ma anche, alla luce del contesto (cf. 16,9-10: «per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa»), che la prospettiva è dilatata al di là la morte.

 

Tutte queste linee di senso, presenti nell’Antico Testamento, trovano il loro compimento nel Mistero di Cristo, annunciato e dispiegato dagli autori del Nuovo Testamento.

Soprattutto nei primi due capitoli del vangelo di Luca si vede chiaramente che la gioia è il contraccolpo nell’uomo dell’attestazione di Dio nella storia nella persona di Gesù Cristo.

L’angelo Gabriele saluta la vergine Maria invitandola alla gioia messianica (questo il senso del saluto Chaire: rallegrati!): cf. Lc 1,26-38 (cf. anche Sof 3,14; Gl 2,21; Zc 9,9; Lam 4,21).

La visita di Maria alla cugina Elisabetta costituisce la via attraverso cui la gioia messianica si estende anche alla stessa Elisabetta ed al piccolo Giovanni che ella porta in grembo: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (cf. Lc 1,39-45, spec. 44).

Subito dopo, il cuore e le labbra di Maria si schiudono nel canto di lode del Magnificat, intriso sin dall’inizio della gioia per il dono di Dio ricevuto dalla Vergine: «l’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (cf. Lc 1,46-55, spec. 47).

Il tema della gioia compare subito dopo la nascita di Giovanni Battista: «I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei» (cf. Lc 1,57-58, spec. 58).

Naturalmente, la gioia esplode in tutta la sua forza al momento della nascita di Gesù. Ciò si evidenzia nell’annuncio dell’angelo ai pastori: «L’angelo disse loro: “Non temete: ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”» (cf. Lc 2,8-12, spec. 10-11).

Diretta conseguenza di tutto questo è il fatto che il ministero messianico di Gesù sia inteso come un ministero evangelico, un ministero che intende portare agli uomini il vangelo, cioè il lieto annunzio dell’amore misericordioso di Dio per Israele e per tutte le nazioni.

Ciò si evidenzia nell’annunzio programmatico fatto da Gesù nella sinagoga di Nazareth proprio all’inizio del suo ministero:

«Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore. Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”» (cf. Lc 4,16-21).

 

L’annunzio di Nazareth costituisce come il frontespizio di tutta la missione di Gesù. Nella sua predicazione, Gesù annunzia in tutti i modi e da tutti i versanti che il Regno di Dio è presente nella sua persona e che esso è fonte di gioia sempre, anche nelle situazioni apparentemente più svantaggiose e travagliate (come si vede nel testo delle Beatitudini: cf. Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Questo paradosso (la gioia nella sofferenza) si acuirà fino all’estremo nel Mistero della passione e della croce di Gesù, Mistero che costituisce un tutt’uno con l’infinita gioia della Risurrezione:

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (cf. Gv 20,19-20).

 

La Chiesa è la comunione di persone in cui Gesù rimane presente con la potenza della sua Risurrezione come Signore della storia e grande protagonista, assieme allo Spirito Santo, della missione di salvezza (cf. Mt 28,20: «ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo»). Di conseguenza, ogni comunità cristiana è chiamata a vivere nella gioia del Risorto, nella gioia dell’annunzio missionario di Cristo risorto: «I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo» (At 13,52).

Che la gioia sia frutto dello Spirito Santo è tematizzato da San Paolo in Gal 5,16-26, laddove l’Apostolo contrappone le opere della carne al frutto dello Spirito, articolato nelle sue manifestazioni ma unificato nella sua fonte originaria (lo Spirito Santo appunto):

«Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (cf. Gal 5,16-26, spec. 22).

 

Presente, come s’è detto, in tutto il nuovo Testamento (cf. 1Gv 1,4 dove la comunione con Dio estesa agli altri è fonte di gioia piena; Gc 1,2 dove il fatto di subire delle prove in nome della fede in Cristo è indicato come perfetta letizia), il tema della gioia viene sviluppato con grande intensità dall’apostolo Paolo, soprattutto in tre testi: Rm 14,17; 2Cor 7,4; Fil 4,4-5 (mi soffermerò più a lungo su quest’ultimo testo):

 

- Rm 14,17-18: «Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi si fa servitore di Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini».

Oltre ad essere un “contrassegno”, un carattere distintivo del Regno di Dio, la gioia è parte integrante del ministero di Cristo da accogliere nella nostra vita e vivere concretamente davanti a Dio ed agli uomini.

 

- 2Cor 7,4 (cf. anche 6,10): «Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione».

I problemi, le incomprensioni, le polemiche presenti all’interno della comunità di Corinto e tra alcuni membri di quella comunità e Paolo non possono compromettere la gioia che è nel cuore dell’Apostolo che ha come fonte la comunione con Cristo.

 

- Fil 4,4-5: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!».

Questa vibrante esortazione, contenuta nella lettera ai Filippesi (che è stata efficacemente definita come “la lettera della gioia”) può costituire un’ottima conclusione delle tematiche che abbiamo affrontato sinora.

Nel complesso il testo suona come un potente invito alla letizia, una letizia intima, personale (rallegratevi nel Signore), una letizia non passeggera, momentanea ma abituale, nel senso proprio della virtù di habitus. In tal modo, la letizia viene intesa come uno stato abituale che accompagna il cristiano sempre, un vero e proprio stile di vita. La cosa è sottolineata sia dal tempo dell’imperativo (è un presente che sottolinea la durata dell’azione) che dall’avverbio pántote, sempre. Il fondamento della letizia consiste nella relazione con il Signore, messa in evidenza dall’espressione nel Signore, espressione che, grammaticalmente, deve essere interpretata come un locativo “mistico”, che traccia lo spazio spirituale in cui trovare la letizia.

D’altra parte, questa letizia ha, all’esterno, una visibilità immediata, quasi inarrestabile: la vostra amabilità sia nota a tutti gli uomini. Il termine impiegato da Paolo per amabilità – l’aggettivo neutro sostantivato epieikés – fa riferimento alla virtù della epiéikeia, ossia alla virtù che – secondo la definizione del grammatico tedesco F. Zorell -, messo da parte il rigore della giustizia (non la giustizia ma il rigore) persegue ciò che è equo e si oppone alla severità. Indica, perciò, la clemenza, l’affabilità, l’amabilità che traspaiono da un volto mite e sereno.

Il fondamento delle tre esortazioni (proposizioni volitive) presenti nel testo paolino (Siate sempre lieti nel Signore … siate lieti … la vostra amabilità sia nota a tutti) è espresso a chiare lettere  nella proposizione assertiva affermativa di 4,5: Il Signore è vicino. La dimensione personale e, al contempo, missionaria, della gioia dei discepoli ha il suo fondamento in un fatto grandioso, inaudito eppure semplice e “familiare”: il Signore è vicino. Si evidenzia così che al cuore delle esortazioni vi è un fatto: la presenza accanto a noi del Signore.

In altre parole: se il Signore ci invita a rallegrarci sempre, è perché egli è sempre pronto a farci dono della grazia della sua gioia. Il fondamento della gioia è dato dalla presenza e dall’amicizia di Dio in Cristo. Ciò significa che Cristo entra a pieno titolo nella definizione stessa di gioia. Di conseguenza, la via che conduce alla gioia non può che essere quella dell’amicizia di Cristo. Un amore d’amicizia da accogliere con gratitudine e stupore ... lo stupore dell’Apostolo che, poche righe prima, ha scritto ai Filippesi: sono stato conquistato da Cristo (Fil 3,12). Un’amicizia, quella con Cristo, da custodire in quella continua mendicanza di Dio che è la fede, fede che trova la sua espressione più naturale ed immediata nella preghiera. Difatti, subito dopo l’invito alla gioia, Paolo indica la via luminosa della preghiera: in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti (cf. Fil 4,6).

Nella preghiera l’uomo riconosce la sua radicale povertà, riconosce che, da solo, non ha gioia, non ha pace e che, per questo, deve chiedere a Dio di renderlo partecipe della sua gioia e della sua beatitudine. A ben vedere, il cristiano non può esprimere nessun’altra preghiera che non sia la preghiera di Cristo. Se noi siamo stati conquistati da Cristo, se lui ci ha fatti suoi con l’offerta del suo sangue, la nostra preghiera cosa può mai essere se non permettere a Cristo di pregare in noi il Padre?

Siamo così giunti al segreto ultimo della gioia, alle sorgenti misteriose da cui essa promana, su cui mediteremo di qui a poco, soffermandoci sui misteri del S. Rosario. Molte possono essere le ragioni di inquietudine e di timore; in noi ed attorno a noi vi possono essere molte tenebre ma la luce che si diffonde da Cristo, è infinitamente più forte di tutto. La tristezza non può che capitolare dinanzi alla luce della verità e dell’amore di Dio in Cristo. La fede nella Presenza buona e potente di Cristo apre sempre il nostro cuore alla gioia ed alla speranza.

Ha scritto in proposito Sant’Agostino: «Se teniamo desta la nostra fede, siamo nella gioia»[1].

È proprio così: la fede è un giudizio che arriva fino al cuore del reale, fino al riconoscimento che nel reale, oltre ogni cosa (problemi, preoccupazioni, malattie, disagi, sofferenze fisiche e spirituali), anzi, alla radice di ogni cosa vi è Cristo, colui che compie in tutta la sua ampiezza il nostro desiderio di felicità, donandoci la grazia di partecipare alla vita stessa di Dio.

 

 

1.2. I misteri della gioia

 

«Beata colei che ha creduto! (Lc 1,45). La vibrante esclamazione di Elisabetta al momento della Visita della Vergine e del Figlio custodito in grembo (secondo mistero) ci permette d’andare subito al nocciolo della gioia della Madonna. Il suo cuore era familiare alla gioia, perché la gioia è il “contraccolpo” nell’uomo della fede in Dio, della certezza, cioè, che Dio è buono e che, appartenendo a lui, la nostra vita è diretta verso un destino buono, verso un esito luminoso e lieto. Il Magnificat (Lc 1,46-55) è l’espressione di un cuore che si spalanca alla gioia che viene dalla fede in Dio, dalla certezza nella sua bontà e nella sua fedeltà al compimento del disegno. È da questa certezza, la certezza della fede, che fiorisce il servizio reso da Maria alla cugina Elisabetta.

 

Ad ogni istante il cuore di Maria era pervaso dalla gioia, perché abitato dalla memoria dell’evento cruciale che si era consumato al momento dell’annunzio dell’angelo e del suo sì, del suo fiat al disegno di Dio (Lc 1,38 «Ecco la serva del Signore: avvenga [fiat] per me secondo la tua parola»). La memoria dell’Annunciazione (primo mistero) era in lei incessantemente rinnovata dalla contemplazione adorante del Figlio in tutte le fasi del suo sviluppo: minuscolo embrione nel suo grembo verginale, bambino, ragazzo, giovane uomo, profeta e maestro potente in opere ed in parole, servo – agnello in cammino verso un destino di estrema prostrazione e di inaudita glorificazione.

Nel sì di Maria è racchiuso il mistero di salvezza che raggiunge tutta la storia:

«A questo annuncio approda tutta la storia della salvezza, anzi, in certo modo, la storia stessa del mondo. Se infatti il disegno del Padre è di ricapitolare in Cristo tutte le cose (cfr Ef 1, 10), è l'intero universo che in qualche modo è raggiunto dal divino favore con cui il Padre si china su Maria per renderla Madre del suo Figlio. A sua volta, tutta l'umanità è come racchiusa nel fiat con cui Ella prontamente corrisponde alla volontà di Dio»[2].

 

La nascita di Gesù (terzo mistero) segna il momento cruciale della storia della salvezza in cui il Mistero infinito di Dio, la Parola creatrice che è all’origine di tutto ed in cui tutto consiste si rende visibile in un volto, tangibile in un corpo. In quel volto, la Madonna (prima di tutte le creature, primizia di tutti i salvati) può contemplare la gloria di Dio:

«e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità (…). Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,1-18, spec. 14.18).

Oltre che Mistero di rivelazione, la Natività di Cristo è Mistero di comunione: Gesù rivela agli uomini Dio, per donare Dio all’uomo, per essere con tutte le fibre della sua carne (tessuta dallo Spirito nel grembo verginale della Madonna) l’Emmanuele, il Dio-con-noi (cf. Mt 2,23, compimento della profezia di Is 7,14; 8,8.10).

 

La presentazione del piccolo Gesù al Tempio (quarto mistero: cf. Lc 2,22-38) ed il ritrovamento di Gesù ormai dodicenne al Tempio (quinto mistero: cf. Lc 2,41-50) sono come due lampi improvvisi che illuminano il Mistero di quel bambino. Egli è venuto a compiere la storia della salvezza sia nell’ordine del Sacrificio (con la sua Pasqua di passione, croce e risurrezione darà un contenuto nuovo e definitivo ai sacrifici dell’antica alleanza), sia nell’ordine della Parola (è lui la Parola eterna del Padre, la suprema Autorità che porta a compimento tutte le Scritture). Non certo a caso i due ultimi misteri si compiono a Gerusalemme, la città dove si consumerà il passaggio pasquale dell’Agnello:

«I due ultimi misteri, pur conservando il sapore della gioia, anticipano i segni del dramma. La presentazione al tempio, infatti, mentre esprime la gioia della consacrazione e immerge nell'estasi il vecchio Simeone, registra anche la profezia del “segno di contraddizione” che il Bimbo sarà per Israele e della spada che trafiggerà l'anima della Madre (cfr Lc 2, 34-35). Gioioso e insieme drammatico è pure l'episodio di Gesù dodicenne al tempio. Egli qui appare nella sua divina sapienza, mentre ascolta e interroga, e sostanzialmente nella veste di colui che 'insegna'. La rivelazione del suo mistero di Figlio tutto dedito alle cose del Padre è annuncio di quella radicalità evangelica che pone in crisi anche i legami più cari dell'uomo, di fronte alle esigenze assolute del Regno. Gli stessi Giuseppe e Maria, trepidanti e angosciati, “non compresero le sue parole” (Lc 2, 50). Meditare i misteri 'gaudiosi' significa così entrare nelle motivazioni ultime e nel significato profondo della gioia cristiana. Significa fissare lo sguardo sulla concretezza del mistero dell'Incarnazione e sull'oscuro preannuncio del mistero del dolore salvifico. Maria ci conduce ad apprendere il segreto della gioia cristiana, ricordandoci che il cristianesimo è innanzitutto euanghelion, 'buona notizia', che ha il suo centro, anzi il suo stesso contenuto, nella persona di Cristo, il Verbo fatto carne, unico Salvatore del mondo»[3].

 

 

 

 

 

 

SCHEDA 2: LA LUCE

2.1. La luce nella Bibbia

 

Il tema della luce percorre da un capo all’altro la rivelazione biblica, dalla Genesi all’Apocalisse.

La luce è la prima delle creature di Dio (cf. Gn 1,3: «E Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»), anzi la separazione tra luce e tenebre è il presupposto per la chiamata all’esistenza di tutte le cose.

Dall’altra parte, il libro dell’Apocalisse si chiude con la manifestazione della città sposa, la Gerusalemme celeste, che ha la propria luce in Dio stesso:

«Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5).

Nella Bibbia, collegato al tema della luce, vi è il polo antitetico delle tenebre. Entrambe – luce e tenebre – presentano una fortissima connotazione simbolica, al punto che attorno ad esse prendono forma due campi semantici:

luce: rivelazione di YHWH, guida di YHWH, presenza di YHWH, giorno di YHWH; vita, pace, gioia, benedizione, salvezza, salute.

tenebre: lontananza da YHWH, peccato, morte, dominio del diavolo, tristezza, angoscia, dolore, maledizione, condanna.

Non stupisce, dunque, che le tradizioni sapienziali descrivano il contenuto stesso della Rivelazione di Dio (la Legge, la Parola, la Sapienza) attingendo a piene mani alla simbologia della luce (cf. Sap 7,10.19.26.29; 18,4; Pr 4,18-19; 6,23; Qo 2,13; Sal 18,29; 119,105; Gb 29,3). Come nel caso della gioia, anche la luce conosce, nel complesso della rivelazione biblica, un processo di sviluppo che, nella pienezza dei tempi, trova il suo vertice ed il suo compimento nella persona di Gesù Cristo.

Come s’è detto il punto di partenza è costituito dal racconto sacerdotale della Creazione, in cui – in Gn 1,4 – la luce costituisce la prima delle creature non solo in senso cronologico ma anche in senso qualitativo, se si considera che tutte le creature vengono “alla luce”, hanno cioè il loro presupposto nel fatto che ci sia la luce come ambito proprio della vita. A differenza delle cosmogonie delle altre tradizioni religiose (in cui luce e tenebre corrispondono a divinità in lotta tra di loro), la Bibbia non presenta la luce e le tenebre come realtà naturalmente opposte. Certo, ciò che Dio vede e giudica come tov (“cosa buona”) è la luce ma essa non è contrapposta alle tenebre in senso dialettico. Al contrario, la loro alternanza è armoniosa ed ordinata, è voluta da Dio per scandire il “ritmo” fondamentale dello scorrere del tempo, ossia l’alternanza tra il giorno e la notte:

«3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. 4Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo» (cf. Gn 1,3-5).

L’antitesi luce / tenebre non è, dunque, nell’ordine della creazione, nell’ordine della natura così come è uscita dalle mani di Dio, ma solo nell’ordine della simbolica che esprime il dramma della storia delle creature libere (gli angeli e gli uomini) che possono allontanarsi da Dio (luce) e precipitare così nelle tenebre della separazione da lui.

Nei racconti patriarcali del Pentateuco, collegati alla tematica della luce, vi sono vari avvenimenti che toccano o direttamente la rivelazione di Dio oppure il suo intervento nella storia dei padri. È il caso delle visioni (cf. Gn 15,1; 16,3) e dei sogni in cui Dio si rivela (cf. Gn 20,3; 26,24), della «fiaccola ardente» che passa in mezzo alle vittime sacrificali in Gn 15,17.

Nelle tradizioni dell’Esodo il fatto che Dio sta dalla parte d’Israele (così come indica la rivelazione del suo nome in Es 3,14: ’ehye asher ’ehye, “io sono colui che sono”) è espresso e mediato con dei segni che appartengono al campo semantico della luce. Infatti, Dio guida il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa rendendosi presente e visibile nella colonna di nube / colonna di fuoco (tra gli altri cf. Es 13,21-22; 14,24; Nm 14,4) e si rivela e parla dalla fiamma di fuoco del roveto (Es 3,2).

Nei libri profetici, la simbologia della luce è collegata soprattutto alla manifestazione del Messia. Molto significativo in proposito l’oracolo di Is 8,23 – 9,6, soprattutto nel suo incipit:

«1Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (cf. Is 9,1). Nei versetti successivi, l’irruzione della luce, apportatrice di gioia e di pace (cf. Is 9,2-4), viene direttamente collegata alla nascita del Re – Messia.

Nei libri dei profeti la simbolica della luce è presente nelle descrizioni del giorno del Signore (cf. Is 24 – 27; Zc 9 – 14; Am 5,18.20; Gl 2,2-5; Ml 3,19-20). La salvezza degli ultimi tempi, che avrà la sua piena manifestazione nel giorno del Signore, viene rappresentata come una trionfale vittoria della luce sulle tenebre (cf. Is 42,16; 49,9; 58,10; c. 60; c. 62).

Quanto agli autori del Nuovo Testamento, essi hanno attinto a piene mani alla ricchezza simbolica del tema della luce negli scritti dell’Antico Testamento, muovendosi lungo tre assi tematici:

a) Gesù è identificato con la luce;

b) è luce il mistero salvifico di Gesù, sia per quanto riguarda le sue parole che le sue azioni;

c) è luce la nuova condizione di cui Gesù rende partecipi i suoi discepoli.

 

Riprenderemo ora brevemente i tre assi tematici appena delineati, soffermandoci su alcuni testi particolarmente significativi.

In merito al primo punto (Gesù – luce), consideriamo dapprima la coppia di testi lucani relativi al vangelo dell’infanzia e cioè il cantico di Zaccaria e quello di Simeone, che non a caso innervano la Liturgia delle ore al sorgere della luce, al mattino (alle Lodi mattutine) e prima di spegnere le ultime luci, nell’imminenza del riposo notturno (a Compieta).

Rivolto a suo figlio, a Giovanni Battista, al termine del cantico profetico detto del Benedictus (dall’incipit dello stesso), Zaccaria esclama:

«76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace».

Come si nota dalle parole poste in evidenza, il simbolismo della luce è espresso attraverso l’identificazione di Gesù con l’astro che sorge dell’alto (si tratta di un titolo messianico: cf. Nm 24,17; Ml 3,20; Is 60,1), che darà luce a quanti giacciono nelle tenebre di morte. In questo senso, la missione del piccolo Giovanni sarà quella di essere il precursore della luce benefica che sorgerà dall’alto e che, com’è evidente, è identificata con Gesù.

Tale identificazione appare con assoluta chiarezza in occasione della presentazione di Gesù al tempio quando il pio Simeone, mosso dallo Spirito Santo, andò al tempio e preso in braccio Gesù benedisse Dio, riconoscendo in quel bambino l’atteso d’Israele, il Cristo del Signore, gloria d’Israele e luce per le genti: «30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Indubbiamente, rimanendo sempre al primo punto, l’identificazione di Gesù con la luce tocca il suo vertice nel Vangelo di Giovanni, dove è presente anche una forte contrapposizione tra la luce e tenebre.

Sono in tal senso paradigmatici i vv. 4-9 del Prologo in cui compare per ben sei volte la parola fos, cioè luce:

«4In lui (cioè nel Logos) era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo».

Rimanendo ancora nel Vangelo di Giovanni, sono molto importanti tre passaggi in cui, con qualche diversità terminologica, Gesù si identifica con la luce.

8,12: «Di nuovo Gesù parlò loro e disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

9,5: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».

12,46: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre».

 

Passando, ora, più rapidamente al secondo asse tematico (è luce il mistero salvifico di Gesù, sia per quanto riguarda le sue parole che le sue azioni), la descrizione del Mistero di Cristo come avvenimento salvifico luminoso, appare con la più assoluta evidenza nel testo di Mt 4,12-17:

«12Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, 13lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: 15Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! 16Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta. 17Da allora (apò tote) Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

L’espressione apò tòte con cui l’evangelista annunzia l’inizio del ministero pubblico di Gesù, ossia l’inizio della sua rivelazione in parole ed in opere, non scandisce semplicemente una successione cronologica ma indica di che natura è tale rivelazione: si tratta della manifestazione della luce stessa di Dio, che consiste nel Regno di Dio predicato ed attuato da Gesù.

L’identificazione dell’opera salvifica di Gesù con la luce appare anche nei numerosi racconti di guarigione o, per meglio dire, d’illuminazione di ciechi (cf. Mt 9,27-31; 20,29-34; Mc 8,22-26; 10,46-52; Lc 18,35-43; Gv 9,1-41). In questi miracoli è l’intera opera salvifica di Dio che è evocata e, ferma restando la storicità dei fatti miracolosi, simbolicamente descritta. In questo senso, la luce va vista come simbolo della fede, così come le tenebre sono simbolo dell’incredulità:

«Nei miracoli di guarigione dei ciechi si adempie ciò che si attendeva per il tempo messianico: Dio (…) in Gesù diventa la guida del suo popolo, come al tempo dell’esodo. (…) Come all’origine delle tenebre, di cui la cecità è simbolo, c’è l’incredulità (Mc 4,11-12; Gv 9,1-42; Is 6,9-10), così alla base dell’illuminazione c’è la fede. In questi miracoli di guarigione, i verbi “guarire”, “ricuperare la vista”, “vederci di nuovo” non sono più limitati al solo corpo dell’uomo, ma diventano sinonimi di “salvezza”. Essi non appartengono più al vocabolario della medicina e della scienza, ma si trasformano nel vocabolario della luce / salvezza che solo Dio può dare all’uomo (Mc 10,52; Gv 9,39)»[4].

 

Passiamo ora al terzo dei tre assi tematici enucleati dianzi (è luce la nuova condizione di cui Gesù rende partecipi i suoi discepoli), considerando, tra i molti possibili, il testo di Mt 5,13-16. Infatti, in questo testo vi è una vera e propria identificazione tra i discepoli di Gesù e l’espressione luce del mondo che in Gv 8,12 Gesù attribuisce direttamente a sé.

Mt 5,13-16: «13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. 14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

In questo passo, Gesù delinea quella che potremmo definire la carta d’identità dei suoi discepoli e lo fa con due frasi assolutamente geniali: «Voi siete il sale della terra», «Voi siete la luce del mondo». I due complementi di specificazione “della terra” e “del mondo” ci fanno comprendere subito che è qui in gioco il volto dei cristiani davanti agli altri e non davanti a qualche passante appena, ma al cospetto del mondo intero, della storia umana nella sua totalità.

In questo contesto, l’aspetto più immediato espresso dal simbolo della luce è il fatto che esso esalta la positività e l’efficacia della missione dei discepoli. Le tenebre possono essere fitte e diffuse quanto vogliono ma una sola particella di luce ha la meglio su di loro, le tenebre non possono impedire che essa rifulga e risplenda. Nelle parole di Gesù c’è, dunque, un messaggio d’incoraggiamento e di speranza per i suoi discepoli d’ogni tempo, che spesso possono essere presi dal timore che il potere delle tenebre sia troppo forte per essere sconfitto dalla luce. La buona notizia recata loro da Gesù è che non è così: la luce è più forte delle tenebre. E questo perché Dio è luce, Gesù è luce.

Per avere la meglio sulle tenebre, i discepoli sono chiamati semplicemente ad accogliere ogni giorno in sé stessi la luce di Cristo. Così saranno essi stessi luce che risplende sul mondo. In questo senso l’espressione la vostra luce del v. 16 va parafrasata come la luce che siete voi. Così la vita dei discepoli sarà non una lampada nascosta sotto un vecchio secchio ma una città collocata sopra un monte, un faro che aiuta i marinai a non perdere la rotta.

Un’analoga identificazione dei discepoli con la luce o con i “figli della luce”(chiamati a maneggiare le “armi della luce” ed a portare il «frutto della luce») è presente in vari passaggi dell’epistolario paolino (cf. Rm 13,12-13; 1Ts 5,5; Ef 5,9-11.14). In questi passi, l’Apostolo mette in evidenza la netta distinzione dei cristiani rispetto all’ordinamento della tenebra e della morte e precisa i risvolti morali dell’illuminazione che essi hanno ricevuto in Cristo Gesù.

Consideriamo per tutti il testo di Ef 5,8-9:

«8Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; 9ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità».

Questo testo della lettera agli Efesini, con l’evidente riferimento alla grazia del Battesimo, sacramento della rinascita che consiste nell’illuminazione del neofita, nel passaggio dalle tenebre alla luce, mette in evidenza il principio fondamentale dell’etica cristiana e cioè il primato della grazia, il primato dell’agire di Dio sull’agire dell’uomo. Di conseguenza, l’etica cristiana si configura come un’etica responsoriale, come una “risposta” all’iniziativa del Padre che si è rivelato e donato e si dona agli uomini attraverso la rivelazione / dono del Figlio e dello Spirito Santo.

 

 

2.2. I misteri della luce

 

I misteri della luce hanno il loro centro nella contemplazione di Cristo – luce, sia nel senso della rivelazione (Cristo, luce di verità) che della salvezza (Cristo, luce di salvezza):

«Passando dall'infanzia e dalla vita di Nazareth alla vita pubblica di Gesù, la contemplazione ci porta su quei misteri che si possono chiamare, a titolo speciale, 'misteri della luce'. In realtà, è tutto il mistero di Cristo che è luce. Egli è “la luce del mondo” (Gv 8, 12). Ma questa dimensione emerge particolarmente negli anni della vita pubblica, quando Egli annuncia il vangelo del Regno»[5].

La contemplazione della luce di Cristo presenta un evidente “risvolto mariologico”, in quanto la Madonna può essere definita “fonte di luce e di vita” in quanto è Madre di Cristo, secondo la carne e secondo la fede. Quello che nell’ordine della generazione fisica è avvenuto una volta per tutte, continua, si rinnova incessantemente nell’ordine della generazione spirituale. Infatti, illuminandoci con il suo esempio, precedendoci con la sua testimonianza di fede, speranza e carità, sostenendoci con la sua potentissima preghiera d’intercessione, la Madonna ci genera alla vita ed alla luce, perché fa crescere nei nostri cuori la fede nel Figlio suo Gesù, fa crescere e sviluppare la vita di Cristo in noi.

Le vie, i canali attraverso cui ci viene comunicata la luce di Cristo sono, innanzi tutto, la Parola di Dio ed i Sacramenti. Tra i Sacramenti, il Battesimo è quello dell’origine, della generazione della vita di Cristo in noi. In questo senso, il fatto che il primo mistero della luce sia quello del Battesimo di Gesù al Giordano riveste un’importanza notevole. Infatti, il Battesimo di Gesù al Giordano dalle mani di Giovanni Battista è la prefigurazione del Battesimo della nuova alleanza che è inserimento sacramentale nel passaggio pasquale di morte e risurrezione di Gesù ed epifania, cioè manifestazione sia dell’identità di Gesù, sia dell’identità nostra. Al momento del Battesimo al Giordano, Gesù viene rivelato come il Redentore di tutte le genti ed il Sovrano dell’universo. Infatti, dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, lo Spirito Santo discende su Gesù come una colomba e dal cielo si ode una voce, la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (cf. Mt 3,17 e par.).

Le parole che il Padre rivolge a Gesù sono molto importanti per due ragioni. La prima: ci dicono chi è Gesù: è il Figlio di Dio, non solo un profeta, un grande uomo, un eroe, un filosofo illuminato, un Messia investito dal basso, è molto di più è il Figlio di Dio fatto uomo, è Dio stesso presente in mezzo a noi in una forma pienamente umana, è, come diciamo nel Credo, vero Dio e vero uomo. La seconda ragione è che le parole del Padre ci rivelano chi siamo noi. Diventando uno di noi, facendosi uomo, il Figlio di Dio ci ha donato la grazia di condividere la sua stessa identità, la sua stessa luce. Così quello che Gesù è per natura (il Figlio di Dio, l’Immortale, l’Eternamente Beato, il sommamente Buono), a noi è offerto per grazia.

 

Il tema dell’epifania, cioè della manifestazione (che è insito nell’idea stessa di luce) rimane in primissimo piano anche nel secondo mistero e cioè la rivelazione della gloria di Cristo alle nozze di Cana. Che la rivelazione della luce gloriosa di Gesù sia il cuore del testo di Gv 2,1-12 è evidente da quanto l’evangelista annota in 2,11: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2,11).

La gloria, come vedremo, è lo splendore abbagliante di Dio, un concentrato di luce e di fuoco, che rappresenta la sublimità, la maestà, la potenza, la santità di Dio. Affermare che a Cana Gesù rivela la sua gloria significa, perciò, affermare che lì Gesù si rivela al mondo come Dio, come l’Eterno presente nel tempo e nella storia.

Quanto è avvenuto a Cana continua ad avvenire nel “tempo della Chiesa” in cui noi viviamo: egli entra nelle concrete circostanze della nostra esistenza, caratterizzate da una radicale povertà («non hanno più vino», fa presente la Madre a Gesù cioè: «non hanno cioè che rende bella, gioiosa e gustosa la vita») e, in queste circostanze, fa risplendere la sua gloria, la luce buona e potente dell’Emmanuele, il Dio-con-noi. Come in quella circostanza con gli sposi ed i convitati di Cana, la Madonna si prende cura di noi, si preoccupa che la nostra vita non trascorra nell’insipienza, nella tristezza dello smarrimento del senso e del significato e chiede a Gesù di donarci il vino nuovo della fede in lui e dell’amore di Dio, il vino del banchetto messianico, perché la nostra vita risplenda della sua luce gloriosa.

 

Che la luce di Dio si comunichi attraverso la Parola e l’Opera di Cristo è in primo piano nel terzo mistero, in cui si contempla il ministero pubblico di Gesù caratterizzato dall’annunzio e dalla realizzazione del Regno di Dio. L’annunzio del Regno, la sua attuazione attraverso i gesti compiuti da Gesù e, dietro suo mandato, dai suoi Apostoli sono le vie attraverso cui Dio si comunica all’uomo[6].

Il compendio del ministero pubblico di Gesù, della sua predicazione, delle sue opere si trova all’inizio del cosiddetto “discorso missionario”, il secondo dei cinque grandi discorsi di Gesù che costellano il vangelo di Matteo. Nell’atto d’inviare i Dodici in missione, Gesù conferisce loro questo mandato:

«7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni» (cf. Mt in 10,7-8).

In questa prima scansione del discorso missionario, Gesù indica ai Dodici cosa sono chiamati a dire (v. 7) ed a fare (v. 8). Il fatto che i Dodici siano chiamati a far conoscere è il seguente: «si è reso vicino (enghiken) il Regno dei cieli». Il verbo enghiken viene da enghìzo, che qui è usato nel senso intransitivo di mi avvicino. È un perfetto. Il senso è: «il Regno dei cieli si è avvicinato e rimane vicino».

«Regno dei cieli» è un’espressione che va decodificata. Il complemento di specificazione dei cieli nasce dalla preoccupazione tipicamente semitica di evitare di pronunziare il nome di Dio sostituendolo con sinonimi o perifrasi che alludono a Dio stesso. I cieli sono la dimora propria di Dio (Cf. Sal 115,16: «I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo»; cf. l’invocazione iniziale della preghiera del Signore in Mt 6,9: «Padre nostro che sei nei cieli») e quindi il sintagma “Regno dei cieli” equivale a “Regno di Dio”.

Cosa significa “Regno di Dio”? Nella Bibbia l’espressione “regno di Dio”, fa riferimento alla regalità di Dio in atto nella creazione e nella storia, regalità che implica la risposta ed il coinvolgimento attivo (una sinergia) da parte dell’uomo. Difatti, alla categoria di Regno di Dio è collegata quella di alleanza.

Nel Nuovo Testamento queste accezioni trovano la loro puntualizzazione e la loro realizzazione nella persona di Gesù Cristo, che è l’autobasileía toû theoû, cioè il «Regno di Dio in persona». I Dodici sono dunque mandati ad annunziare la regalità di Dio in atto nella persona di Cristo. In lui Dio sta siglando la nuova e definitiva alleanza con Israele e, come apparirà con maggiore chiarezza in seguito, con tutte le genti. Quanto i discepoli sono chiamati a fare sono le opere del Regno, i segni cioè del fatto che davvero la regalità di Dio è in atto nella persona e nel ministero di Gesù e dei suoi discepoli.

I discepoli sono inviati ad instaurare lo shalom, da intendere come lo stato di pace e benessere che tocca l’uomo in tutti i suoi aspetti in conseguenza della benedizione divina. Di qui la liberazione dalle malattie, dalla morte, dalla lebbra e dal potere di Satana. Il peccato è spazzato via, il Regno di Satana perde terreno e l’uomo ritrova la bellezza del suo volto, secondo il disegno originario di Dio (cf. Gn 1,27). Proprio lo shalòm è il carattere distintivo della venuta del Regno di Dio.

 

Che la luce del ministero pubblico sia una prefigurazione della luce della Pasqua è in primo piano nel quarto mistero, il mistero della trasfigurazione di Gesù sul monte (la tradizione lo identifica con il monte Tabor). Come appare soprattutto nel racconto di Luca (cf. 9,28-36) e specialmente nel passaggio dedicato alla conversazione tra Gesù, Mosè ed Elia (Lc 9,30-31: «Ed ecco due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme»), la Trasfigurazione è la rivelazione anticipata dell’esodo di Gesù, cioè del suo passaggio pasquale di passione, morte e risurrezione. Indicando in Gesù il suo Figlio e dicendoci di ascoltarlo (Lc 9,35: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!), il Padre ci rivela la via della vera luce e della vera gloria, non quella abbagliante e seducente ma vuota del potere, dell’avere e del piacere ma quella dell’amore del Figlio di Dio che si consegna alla passione ed alla croce per noi, per la nostra salvezza, perché la nostra vita sia ricolmata di bellezza e di gloria. È per questa bellezza ed è per questa gloria che siamo stati fatti, come evidenzia l’esclamazione di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui!» (cf. Lc 9,33).

La luce e la gloria di Cristo, che si riflettono in tutta purezza nel volto della Madonna e che ci saranno donate pienamente in Paradiso, ci vengono elargite per la bontà di Dio già ora, ogni giorno, perché Cristo è presente in mezzo a noi come fonte di luce e di gloria, illuminandoci con la sua Presenza e con la sua Parola (cf. Lc 9,35). Ascoltando la voce di Gesù, aprendoci come Maria alla sua Parola, noi veniamo trasfigurati ad immagine del suo volto e possiamo, come Maria, diffondere in tutto il mondo la luce buona e potente della sua Gloria.

 

La luce di Cristo non è solo una luce mostrata, rivelata ma anche comunicata, donata. È quello che contempliamo nel quinto mistero della luce: l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli e l’istituzione dei Sacramenti dell’Eucarestia e del Sacerdozio. Attraverso l’Eucarestia ed il Sacerdozio, Gesù ha reso presente per sempre il Mistero del suo passaggio pasquale di passione, morte e risurrezione. Grazie alla Santa Eucarestia, la luce della sua Pasqua non rimane imprigionata nel passato ma raggiunge tutte le generazioni dei credenti, facendo pregustare loro la gioia della piena comunione con Dio in Paradiso. La luce che s’irradia dall’Eucarestia è, dunque, una luce che abbraccia passato (memoria), presente (presenza) e futuro (attesa). Grazie alla comunione con Gesù nell’Eucarestia noi entriamo in comunione anche con il Padre e lo Spirito Santo e, per questa via, la luce di Dio uno e trino s’irradia in noi ed attraverso di noi nel mondo intero.

La Madonna, che Giovanni Paolo II nell’Ecclesia de Eucharistia (cf. n. 53) ha definito «donna eucaristica», ci precede e ci accompagna nell’«immersione» nel Mistero eucaristico. Il Corpo ed il Sangue di Cristo che riceviamo sacramentalmente nella Santa Comunione sono, infatti, quel Corpo e quel Sangue che la Madonna ha concepito nel suo grembo verginale all’annunzio dell’Angelo:

«In certo senso, Maria ha esercitato la sua fede eucaristica prima ancora che l'Eucaristia fosse istituita, per il fatto stesso di aver offerto il suo grembo verginale per l'incarnazione del Verbo di Dio. L'Eucaristia, mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l'Incarnazione. Maria concepì nell'Annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue, anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore»[7].

 

La prospettiva cristocentrica dei misteri della luce non preclude l’importanza e persino la decisività, pur nella sua “discrezione”, della presenza e della funzione di Maria:

«In questi misteri, tranne che a Cana, la presenza di Maria rimane sullo sfondo. I Vangeli accennano appena a qualche sua presenza occasionale in un momento o nell'altro della predicazione di Gesù (cfr Mc 3, 31-35; Gv 2, 12) e nulla dicono di un'eventuale presenza nel Cenacolo al momento dell'istituzione dell'Eucaristia. Ma la funzione che svolge a Cana accompagna, in qualche modo, tutto il cammino di Cristo. La rivelazione, che nel Battesimo al Giordano è offerta direttamente dal Padre ed è riecheggiata dal Battista, sta a Cana sulla sua bocca, e diventa la grande ammonizione materna che Ella rivolge alla Chiesa di tutti i tempi: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2, 5). È ammonizione, questa, che ben introduce parole e segni di Cristo durante la vita pubblica, costituendo lo sfondo mariano di tutti i 'misteri della luce'»[8].

È portando Gesù a noi e noi a Gesù, è facendoci crescere ogni giorno di più nella conformità al Figlio suo che la Madonna si dimostra realmente fonte di luce e di vita. Accogliendo tutti i giorni la vita e la luce di Gesù, anche noi come Maria possiamo divenire sorgenti di luce e di vita.

Nel romanzo La joie (pubblicato a Parigi nel 1929) di Georges Bernanos vi è un personaggio luminoso, Chantal de Clergerie, una ragazza che vive un’immedesimazione sempre più profonda con Cristo ed in particolare con il Mistero del Getsemani. Ad un certo punto, Chantal si offre, in comunione con Gesù, per la salvezza delle persone che le stanno accanto, specialmente per la salvezza di un sacerdote che era caduto nelle grinfie di Satana. Ad un certo punto Chantal dice:

«Quanto i santi si fanno trasparenti. Ed io, io sono opaca, ecco il male. Io irradio un po’ di chiarore, qualche volta, miseramente, poveramente […]. Bisognerebbe essere come il cristallo, come una sorgente limpida. Bisognerebbe poter vedere Dio attraverso di noi».

Ecco qual è la stupenda dignità che i cristiani hanno ricevuto nel Battesimo, ecco qual è la loro missione: essere figli della luce, riflettere sugli altri la luce e la vita di Dio.

In questo siamo preceduti, incoraggiati e sostenuti dalla Madonna, che è Mistero di luce nella sua stessa persona e nel suo ministero a favore della Chiesa (cf. la visione della donna vestita di sole di Ap 12,1).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCHEDA 3: IL DOLORE

3.1. Il dolore nella Bibbia

«Spesso il male di vivere ho incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato. // Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato».

I versi di Eugenio Montale (tratti dalla raccolta Ossi di seppia del 1925) ci permettono di prendere coscienza del fatto che il dolore, in quanto esperienza umana del male, in quanto emergenza del divario che vi è fra il desiderio umano di felicità e di vita e la sua realizzazione, si presenta come una realtà complessa e dai mille volti. Così come vi è un male fisico, un male psicologico, un male spirituale vi sono altrettante forme di dolore. Per usare le parole di Antonio Bonora, il male / dolore presenta “un volto proteiforme”:

«Il male / dolore assume forme infinite sia a livello individuale (fisico, psichico, morale), sia a livello sociale (guerre, genocidi, violenze, ecc.), sia a livello cosmico (terremoti, alluvioni, vulcani, uragani, ecc.). Non esiste il male / dolore in astratto , ma sempre e solo nel contesto di relazioni storiche concrete. Il male / dolore è sempre ‘situato’, connesso a realtà concrete»[9].

Al binomio male / dolore è necessario aggiungere anche il termine morte, in quanto proprio nella morte il problema del male trova la sua espressione più radicale. Da sempre il problema del male / dolore / morte costituisce il problema filosofico par excellence. Colpendo l’uomo nel suo desiderio originario di vivere e di vivere bene e per sempre, il problema del male / dolore / morte tocca la questione cruciale del senso e del significato del vivere umano e, di conseguenza, del rapporto dell’uomo con colui che si presenta davanti a lui come il senso ed il significato della sua vita e cioè Dio.

Considerata la massima importanza della questione, non sorprende che attorno al problema del male / dolore sia stato elaborato un trattato filosofico ben preciso: la teodicea. Essa affronta in maniera sistematica la questione del senso del dolore rispetto al fatto dell’esistenza di Dio e della sua bontà.

I termini delle questioni della teodicea sono così riassunti dal retore cristiano Lattanzio (250-327): «Dio o vuole eliminare il male e non può; oppure può e non vuole; oppure non vuole e non può; oppure vuole e può».

È evidente che solo la quarta possibilità corrisponde alla rivelazione biblica, in cui vengono affermate, con assoluta chiarezza, tanto l’onnipotenza quanto la bontà di Dio. Infatti, nelle prime tre possibilità si nega o l’onnipotenza di Dio (prima possibilità) o la sua bontà (seconda possibilità) o entrambe (terza possibilità).

La rivelazione biblica, in realtà, va ben al di là di una trattazione filosofica del problema del dolore, in quanto come vedremo nel rapido excursus che proporrò, presenta la questione all’interno del rapporto tra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo.

Il punto di partenza consiste indubbiamente nel fatto che, secondo le Scritture, la realtà esce dalle mani di Dio come tov, come “cosa buona” (cf. Gn 1,4.10.12.18.25) e l’uomo come tov me’od, cioè come “cosa molto buona” (cf. Gn 1,31). Poiché in Dio vi sono vita / bene / felicità, nel creare ogni cosa, egli dà ad ogni cosa di partecipare alla vita, al bene ed alla felicità (cf. Sap 1,13-14; 11,26). Il fatto che alla triade vita / bene / felicità si sia contrapposta la triade morte / male / dolore è conseguenza del fatto che la libertà dell’uomo, sin dall’inizio, si sia determinata disordinatamente rispetto a Dio. Il racconto, dai tratti fortemente simbolici di Gn 3, sta lì a mostrarcelo: la ribellione e l’allontanamento (dapprima “spirituale”, poi anche “fisico”) da Dio e dalla sua Dimora (l’Eden) fanno sì che l’uomo si allontani dalla fonte della vita, del bene e della felicità e precipiti sotto la nefasta influenza del male, del dolore e della morte.

Quanto considerato sinora comporta due conseguenze, che costituiscono altrettante premesse per comprendere lo sviluppo ed il compimento della storia della salvezza (che può anche essere definita “storia del felice scioglimento del dramma del dolore umano grazie all’iniziativa di Dio”):

a) se il male ed il dolore non vengono da Dio ma dal peccato dell’uomo (cf. Sir 15,11-16; Qo 3,16), allora è intatta la fonte del bene e della gioia.

b) poiché il dramma del male e del dolore si è scatenato a partire dalla ribellione a Dio da parte della libertà umana (su istigazione di satana), è precisamente su quel versante che si gioca la “partita” della salvezza.

Questi due punti vengono plasticamente rappresentati nel dramma di Giobbe, un uomo combattuto tra la sua fede nella giustizia e nella bontà di Dio e la tentazione, a seguito delle variegate prove a cui va incontro (sofferenze fisiche e spirituali, sofferenze che lo colpiscono nei suoi affetti, nelle sue cose, nella sua stessa carne, sofferenze a seguito delle accuse di coloro che pure vorrebbero “consolarlo”) di cedere ad un’immagine deformata di Dio, quella di un Dio ingiusto e crudele.

È proprio quest’ultima tentazione a costituire la più grande prova ed il più grande dolore per Giobbe che, infatti, chiede a Dio di venire in suo soccorso, mostrandogli il Senso del suo dolore. Nella sua risposta (cc. 38 – 41), il Signore non risponde in modo astratto ma opta per la via dell’esperienza. Il Signore fa toccare con mano a Giobbe quanto sia grande Dio e quanto sia piccolo lui rispetto all’imponenza della sapienza divina.

Proprio l’esperienza diretta di Dio costituisce il vertice del percorso di conoscenza e di fede che Dio fa percorrere a Giobbe:

«Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» esclama Giobbe» (cf. Gb 42,5).

 

Un’altra figura biblica che, trattando del mistero del dolore, non possiamo certo tralasciare è Geremia, un uomo scelto da Dio per essere suo profeta in un momento drammatico della storia d’Israele e, proprio per la sua assoluta fedeltà a Dio ed alla sua Parola, fieramente osteggiato dai suoi connazionali. Nelle cosiddette “confessioni”, il profeta sfoga tutta la sua sofferenza con lamenti, preghiere, domande sulla giustizia di Dio che presentano degli accenti a dir poco intensi (cf. Ger 12,1; 15,18; 20,14.18).

Ciò che è decisivo in queste “confessioni” del profeta, è il fatto che le domande sulla giustizia di Dio, la protesta per il dolore, persino il rimpianto per essere venuto al mondo sono inseriti in un contesto di dialogo con il Signore. È lì, nell’incontro tra le due libertà che si trova la chiave per comprendere il mistero del dolore e difatti il profeta intuisce che, nella sua bontà onnipotente, il Signore è capace d’integrare anche il male (che è conseguenza del peccato del popolo, il cui esito sarà la terribile catastrofe dell’esilio) in un più grande disegno di salvezza e di pace: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza»  (Ger 29,10-14, spec. 29,11).

 

Questo stesso schema di fondo – ossia l’affronto del problema del male all’interno del dialogo con Dio – percorre da una parte all’altra il libro dei Salmi in cui la questione del dolore viene tematizzata soprattutto nei salmi di lamentazione e supplica sia di carattere individuale che collettivo. Volendo scegliere un salmo di carattere “paradigmatico”, è opportuno fissare la nostra attenzione sul Salmo 22, indubbiamente uno dei poemi più belli del Salterio per perfezione metrica e vigore delle immagini. Il salmo descrive, sulla stessa linea di altri salmi (cf. Sal 3; 7; 69) l’esperienza di un giusto[10], perseguitato con indicibile crudeltà dai suoi nemici e da questi condotto ad un passo dalla morte. Nel mezzo delle sofferenze fisiche e morali che sperimenta, il salmista non impreca contro Dio né prega contro i suoi nemici. Al contrario, si abbandona con assoluta fiducia all’Altissimo e da questi ottiene, alla fine, la salvezza e la vittoria. Il salmo 22 presenta uno sviluppo lineare. È composto di due parti: nella prima (cf. vv. 2-22) vengono descritte le sofferenze dell’orante ed il suo abbandono a YHWH, nella seconda (cf. vv. 23-32) l’azione liberatrice con cui il Signore risponde alla sua supplica. La descrizione delle sofferenze fisiche dell’orante comincia al v. 13. Il salmista si ritrova circondato da nemici che si scatenano su di lui con grande ferocia: quest’accanimento è descritto per mezzo di immagini animalesche, che evocano una violenza fisica formidabile (cf. vv. 13-14.17a). A causa dell’esplosione di tale violenza, l’orante è ridotto allo stremo: nei vv. 15-16ab si trova già in uno stato di vera e propria agonia. La vittoria dei nemici sembra totale: essi lo hanno legato, fatto distendere su polvere di morte, ricoperto di piaghe e, sprezzanti, lo osservano. Al culmine del loro trionfo, essi fanno preda delle sue vesti: «si dividono tra loro le mie vesti, sul mio abito gettano la sorte» (cf. v. 19)[11]. Ma proprio quando il salmista è nel fondo del baratro e la morte sembra incombere, inesorabile, su di lui, il suo cuore ritrova, in maniera sorprendente, nuovo slancio e si apre alla speranza, nella certezza che l’Altissimo è presente accanto a lui per salvarlo dalla furia dei nemici: «ma tu, mio Dio, non startene lontano, mio Dio affrettati in mio aiuto» (cf. v. 20). I vv. 20-22 costituiscono un potente contrappunto rispetto alla situazione apparentemente disperata descritta nei vv. 13-19: sebbene sia nel fondo dell’angoscia e della sofferenza, l’orante ha ancora fiducia in Dio e la sua speranza, indomita, lo spinge a guardare alla liberazione futura che, di certo, verrà. Difatti, il v. 23 costituisce un vero e proprio “punto di svolta”: la prospettiva è ora al futuro («annuncerò il tuo nome … ti loderò»). In modo repentino, come se fosse stato rilanciato da un avvenimento inatteso, il cuore dell’orante si protende in avanti nella certezza che lui stesso potrà lodare il nome di YHWH nell’assemblea dei suoi fedeli, magnificando il nome dell’Altissimo per la sua salvezza (cf. vv. 23-25) e cantando la sua fedeltà indefettibile (cf. v. 26). La liberazione che l’orante è certo di sperimentare sarà fonte di salvezza per molti. Di qui l’invito rivolto ai poveri (cf. v. 27a), a quelli che cercano YHWH (cf. v. 27b), alle nazioni e a tutte le famiglie dei popoli (cf. v. 28), ai potenti della terra (cf. v. 30a) ed a tutti quelli che scendono nella tomba (cf. v. 30). Tutti sono invitati a lodare YHWH, a riconoscere cioè la sua potente Presenza in mezzo ad Israele e la sua signoria universale (cf. v. 29). Non solo: subito dopo, l’invito alla fede viene rivolto ad una generazione a venire, che loderà il Signore ed annunzierà la sua giustizia e la potenza delle sue opere (cf. vv. 31-32).

Il salmo 22 ha avuto una grande importanza per la fede d’Israele. Infatti, con questo testo, assieme alla figura del servo sofferente del Secondo Isaia (cf. i quattro canti del servo di YHWH:  I. 42,1-9; II. 49,1-9; III. 50,4-11; IV. 52,13 – 53,12), si è radicata nella fede d’Israele la categoria della rappresentanza o della vicarietà, secondo cui, per un misterioso disegno di Dio, le colpe di tutto il popolo si sarebbero concentrate in una sola persona, un giusto che, con la sua sofferenza espiatrice, avrebbe donato la salvezza a tutti (Is 53,5-6: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti»).

È evidente che per i cristiani della prima generazione fu del tutto “naturale” riconoscere nei lineamenti di questo giusto che, da solo, si offre al Padre per la salvezza di tutti i tratti del volto di Gesù. In particolare, secondo la dottrina cristiana dell’espiazione (o della soddisfazione) vicaria, nella sua Passione e Morte, Gesù si è caricato delle colpe di tutti gli uomini, le ha prese su di sé sino al punto di farle divenire come sue, espiandole con la sua Passione e Croce. Difatti, in quanto Figlio di Dio e Capo dell’umanità, con la sua offerta, Cristo può abbracciare misteriosamente ma realmente tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Per questo il Concilio di Quierzy (853) afferma: «Non vi è, non vi è stato, non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto»[12].

Il valore del sacrificio di Gesù e la sua forza redentrice (redenzione è un altro termine per esprimere l’identico Mistero d’espiazione o soddisfazione vicaria) provengono dall’offerta del suo sangue, che è espressione della sua offerta di sé. Difatti, la Bibbia considera il sangue come la sede della vita[13] e proprio da ciò deriva il valore espiatorio dell’offerta del sangue. In breve, poiché offrire il sangue significa offrire la vita di colui al quale quel sangue appartiene, offrendo il proprio sangue Gesù ha offerto se stesso al Padre per amore di tutti gli uomini. È proprio quest’amore a conferire al sacrificio di Gesù un’efficacia infinita[14].

Con queste considerazioni ci siamo già introdotti nel Nuovo Testamento che ha al suo centro il Mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, crocifisso e risorto per la salvezza di tutti gli uomini. Proprio il Mistero di Cristo nel suo complesso e, in particolare, il Mistero della sua passione e croce costituiscono la risposta più profonda all’enigma del dolore umano.

Infatti, come appare soprattutto nei miracoli di guarigione e negli esorcismi, in Gesù è Dio stesso che si fa prossimo all’umanità sofferente (nel corpo, nella psiche e nello spirito) per liberarla dal potere del male (dietro cui, in ultima analisi, è presente il peccato, anche se non è possibile stabilire un collegamento diretto “uno ad uno” tra peccati del singolo e malattie: cf. Gv 9,3). Oltre ad avere un valore storico, i miracoli di Gesù presentano una forte valenza simbolica, in quanto sono segno della liberazione che egli è venuto a portare e che consiste nel suo passaggio pasquale di passione, morte e risurrezione. In forza della sua Pasqua, la potenza dell’amore di Dio è all’opera nel mistero del dolore e della morte. Proprio per questa ragione, la sofferenza e la morte sono vinte dall’interno: non possono più essere intese come “ambiti” dell’assenza di Dio o addirittura della sua maledizione ma come luoghi in cui si compie la rivelazione e l’attuazione dell’amore di Dio.

Di conseguenza, la vita cristiana si configura come sequela del Signore Gesù sulla via della croce. Tuttavia, come per Gesù anche per i suoi discepoli questa via Crucis non ha nulla a che vedere con un “dolorismo” fine a se stesso, ma consiste nell’abbandono d’amore alla volontà del Padre per la salvezza del mondo. È Gesù Crocifisso e Risorto che attrae i discepoli in questo cammino (cf. Gv 12,32).

Quanto il dolore e la croce siano esperienza concreta nella vita del discepolo di Gesù, emerge dalla testimonianza dell’apostolo Paolo, il quale, in 2Cor 11,23-33, passa in rassegna tutte le tribolazioni patite nel corso del suo apostolato. Il vanto dell’Apostolo rispetto a queste sofferenze si fonda sulla consapevolezza che le sue sofferenze sono tutt’uno con quelle di Cristo: «D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (cf. Gal 6,17). Ciò significa che, nella dolorosa esperienza di queste “stigmate”, opera efficacemente la Risurrezione di Cristo con tutto il suo potenziale di salvezza e di gioia (personale ed “ecclesiale”): «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (cf. Col 1,24).

Liberato dalla spina della ribellione a Dio e della separazione da lui, il dolore è ora compreso come un dolore salvifico. E tuttavia, pur nella sua “positività”, questo dolore salvifico presenta un carattere provvisorio, è una caratteristica del mondo presente, in cammino verso la piena glorificazione finale, che ha le sue primizie nei Corpi glorificati di Gesù e della Madonna e che, al suo compimento, abbraccerà non solo il mondo umano ma anche il mondo infra-umano, coinvolto nel destino di sofferenza e di glorificazione dell’uomo:

«Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. […] Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati». (Rm 8,18-19.22-24).

È in questa prospettiva, quella del già e non ancora che il credente può comprendere il senso delle sofferenze presenti, pregustando nel contempo la gioia perfetta e definitiva della Gerusalemme celeste: «3Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. 4E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”» (cf. Ap 21,1-4, spec. 3-4).

 

 

3.2. I misteri del dolore

 

I misteri del dolore pongono al centro della nostra meditazione e della nostra preghiera la sofferenza e la croce di Gesù. Il primo mistero, dedicato all’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani, ci presenta la lotta (nel senso etimologico di agonia) sostenuta da Gesù nella preghiera per respingere la tentazione di sottrarsi al calice amaro della Passione e per abbandonarsi, invece, con fiducia assoluta nelle mani del Padre. Gesù, che per la prima volta si scontra con la ripugnanza rispetto alle circostanze concrete della volontà del Padre, rimane privo anche del conforto umano che gli verrebbe dalla presenza accanto a sé dei tre discepoli prediletti. Gesù rimane solo, drammaticamente solo dinanzi all’ultimo e tremendo assalto di Satana. Che, nell’agonia nell’orto, Gesù si misuri con Satana si evidenzia alla luce del fatto che Gesù rivolge a Pietro l’epiteto “satana” quando questi cerca di distoglierlo dalla passione (cf. Mc 8,33 e par.). Il nocciolo delle tentazioni di Satana nei confronti di Gesù consiste nell’invito a rifiutare la passione. Gesù lotta con tutte le proprie forze contro questa tentazione, perché sa che essa è contraria alla volontà del Padre. Ciò che salva dal soccombere alla paura ed all’angoscia è la preghiera, l’arma che Gesù aveva già additato ai discepoli per vincere i demoni (cf. Mc 9,29) per ottenere da Dio ciò che si desidera (cf. Mc 11,23-24). Gesù manifesta la sua fede assoluta nell’Onnipotenza del Padre (Mc 14,36: «tutto è possibile a te», potremmo parafrasare “anche salvare il mondo senza il mio dolore”) ma, subito dopo, fa seguire una preghiera di abbandono («ma non ciò che voglio io ma ciò che vuoi tu»). Sì, la preghiera è infallibile, Dio può tutto e la fede può ottenere tutto da lui, ma Gesù qui abbandona la sua volontà in quella del Padre affinché l’unica volontà che si compia sia quella del Padre. La forza della sua preghiera, forza che lo sosterrà in tutti i passi del cammino della croce sta in quest’abbandono totale al Padre, in questo svuotamento della sua volontà per accogliere il disegno del Padre. Per tre volte Gesù incide questa verità profonda nel suo spirito e per tre volte va dai suoi per renderli partecipi di questo. Ma ogni volta Gesù si ritrova solo. Tuttavia, Gesù non viene preso da collera né da risentimento nei confronti dei suoi discepoli. Al contrario, sino alla fine “punta”, per così dire, su di loro («Alzatevi, andiamo»), dà fiducia ai suoi, anche se la loro pigrizia, la loro negligenza nell’affrontare l’ora della prova con l’arma della preghiera, rendono inevitabili la loro sconfitta e la fuga, che, infatti, si consumerà di lì a poco.

È commovente notare che, al culmine dell’opera di Cristo, vi sia il fiat così come il fiat vi era stato all’inizio di tutto, al momento dell’annunciazione dell’angelo alla Vergine Maria. Sia Gesù che Maria, nuovo Adamo e nuova Eva rifulgono ai nostri occhi come modelli di perfetta e totale obbedienza al Padre. Dalla disobbedienza di Adamo ed Eva il male / dolore / morte è entrato nella storia umana. Molto di più, dall’obbedienza di Gesù e Maria (il nuovo Adamo e la nuova Eva) il bene / la felicità / la vita fluiscono abbondanti a beneficio di ogni uomo (cf. Rm 5,12-21).

 

Il secondo mistero ci introduce già nel vivo della passione di Gesù, crudelmente flagellato dalla coorte dei soldati romani su ordine di Pilato. Stando al resoconto di Giovanni, interrogato Gesù una prima volta, Pilato esce dal Pretorio e propone ai Giudei d’applicare l’amnistia di Pasqua a beneficio di Gesù (cf. Gv 18,38-39). Ma la reazione degli avversari di Gesù è furibonda e spegne immediatamente le velleità del governatore: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un delinquente, probabilmente un agitatore politico in lotta contro il potere di Roma. Forse per cercare di placare la sete di sangue e di vendetta degli avversari di Gesù, Pilato pensa, allora, di sottoporre Gesù alla crudelissima pena della flagellazione. Spesso, la flagellazione, la verberatio, aveva da sola un effetto mortale. Difatti, mentre Dt 25,2-3 fissa in 40 il numero massimo di colpi consentiti ed il trattato della Mishnà Makkot in 39 (cioè 40 meno uno; cf. anche 2Cor 11,24), nella flagellazione romana il numero dei colpi non era precisato; si frustava fin quando la carne non cascava a brandelli sanguinolenti. Lo strumento della verberatio era la frusta romana, l’horribile flagellum, detto anche flagrum, una serza di cuoio intrecciata con ossi e pezzetti di metallo.

I testi evangelici tacciono sull’eventuale presenza di Maria alla flagellazione del Figlio. Ma, così come sarà presente ai piedi della croce (cf. Gv 19,25-27), è ragionevole immaginarla presente alla sua flagellazione. Ella assiste allo scempio di quel Corpo che lo Spirito Santo aveva tessuto nel suo grembo verginale e che lei aveva circondato sempre di affetto e di adorazione. In questo momento così drammatico, la Madonna rinnova (proprio come Gesù) il suo fiat alla volontà misteriosa del Padre.

I colpi dei flagelli sul Corpo di Cristo manifestano con drammatica evidenza qual è il modo con cui l’uomo risponde all’amore di Dio che ha in quel Corpo donato il suo vertice ed il suo capolavoro. Ma Gesù non si lascia vincere dall’odio dell’uomo: rimanendo sotto i colpi dei flagelli, espia i peccati degli uomini, soprattutto quelli commessi con i sensi, quelli con cui viene profanato il corpo, creato per essere Dimora di Dio.

 

Se l’espiazione dei peccati sensuali è in primo piano nel secondo mistero, il terzo mistero (la coronazione di spine) pone l’accento sui peccati commessi con l’intelletto (in particolare i peccati di superbia). Dopo averlo flagellato, i soldati intrecciano una corona di spine e gliela pongono sul capo; gli mettono poi addosso un mantello di porpora e si fanno beffe di Lui, rendendogli degli omaggi regali da burla e dandogli degli schiaffi. La scena è tutta una canzonatura dell’intronizzazione di un re. Ma gli evangelisti (soprattutto San Giovanni) lasciano trapelare la luce di un profondo significato simbolico. Quando un re si insedia sul suo trono riceve le insegne del potere regale e cioè la corona e la veste di porpora. Successivamente il re insediato riceve l’omaggio da parte dei suoi sudditi. Per l’intronizzazione di Gesù a re, vi è come corona una corona di spine, come veste regale un mantello da soldato e, per omaggio, gli schiaffi dei soldati. Ma mentre il mondo ride della regalità di Gesù, senza saperlo, afferma la sacrosanta verità: Gesù è il Re dei re, il Signore della storia, perché egli è la Verità, il senso ed il significato di ogni cosa. Proprio nella Passione la regalità di Gesù appare in tutta la sua potenza perché rivela il mistero infinito dell’amore di Dio che libera realmente l’uomo dal peccato e dalla morte.

Di certo, la Madonna, pur nell’immensità del suo dolore al vedere lo scempio di quel Corpo (Lam 1,12: «Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore, al dolore che ora mi tormenta»), intuisce questa gloriosa regalità del Figlio e continua a camminare nell’obbedienza al Padre.

 

Nel quarto e quinto mistero diviene sempre più dominante la Croce, dapprima come peso che Gesù deve portare lungo i tornanti del Calvario (quarto mistero), poi come albero che viene issato sul monte ed a cui Gesù viene crocifisso (quinto mistero).

Lungo la strada del Calvario poiché, per le tante percosse subite, Gesù faticava moltissimo a portare la croce, i soldati costringono un passante che tornava dai campi, Simone di Cirene, a portare la croce di lui (cf. Mc 15,21-23). Così, quest’uomo che probabilmente fino a quel momento non aveva mai conosciuto Gesù, diviene il modello del discepolo, perché tra tutti è l’unico che, a sua stessa insaputa, nei fatti ha accolto l’insegnamento di Gesù: «se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (cf. Mc 8,34).

I due portatori della croce, Gesù e Simone, sotto la scorta del drappello dei soldati romani e la folla dei curiosi giungono finalmente al luogo del Cranio. Lì – da qui in poi seguiremo soprattutto il vangelo di San Giovanni – lo crocifiggono e con lui altri due, uno a destra e l’altro a sinistra, e Gesù nel mezzo. Pilato fa apporre sulla testa del condannato il titulus con la motivazione della condanna: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (cf. Gv 19,19). L’iscrizione è in tre lingue (in ebraico, in latino e greco) e, al di là delle stesse intenzioni di Pilato, afferma chi è davvero Gesù, qual è la sua identità e quale la sua missione: egli è il re dei Giudei, cioè il Messia annunciato dai profeti, il compimento di tutta la storia della salvezza e dunque il salvatore di tutte le genti. I sommi sacerdoti cercano di indurre Pilato a cambiare il titulus ma questa volta il governatore rimane fermo sulla sua decisione: «Quel che ho scritto, ho scritto» (cf. Gv 19,22). Le parole del governatore romano hanno un valore involontariamente profetico. Questa verità – “Gesù è il Re dei Giudei”, cioè “Gesù è il Salvatore di Israele e di tutte le nazioni” – è destinata a rimanere incisa nei secoli, fino alla consumazione finale della storia dell’umanità.

Dopo aver crocifisso Gesù, i soldati prendono le sue vesti e ne fanno quattro parti, una per ciascuno di loro. Non così per la tunica: essa è indivisibile, perché senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. I soldati decidono perciò di giocarsela a sorte e, senza saperlo, portano a compimento la Scrittura (cf. Sal 22,19; Gv 19,24). La tunica senza cuciture di Gesù ha certamente un valore simbolico. Forse allude alla veste del sommo sacerdote, che doveva essere senza cuciture. E questo perché Gesù è il nuovo ed eterno sommo sacerdote che, con il suo sacrificio, ha santificato perfettamente e definitivamente tutti coloro che si accostano a Lui (cf. Eb 9,15-28).

È possibile anche che la tunica senza cuciture alluda al nuovo popolo che nasce ai piedi della croce, alla Chiesa, che è una per la sua origine (la Chiesa nasce dall’iniziativa dell’unico Dio in tre persone), per il suo Fondatore (Cristo) e per la sua anima (lo Spirito Santo).

Presso la croce di Gesù vi sono sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Possiamo solo lontanamente immaginare lo strazio della Madonna alla vista dei terribili tormenti patiti da Gesù. Di certo, però, il suo cuore continua ad essere abitato dalla fede nel compimento della promessa di Dio per bocca dell’angelo: «Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (cf. Lc 1,32-33).

La Madonna rinnova una volta ancora il suo sì, il suo fiat alla volontà di Dio. Gesù fissa gli occhi su sua madre e sul discepolo che egli amava, poi dice a sua madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». E al discepolo: «Ecco la tua madre!» (cf. Gv 19,26-27). «E da quell’ora – dice l’evangelista - il discepolo l’accolse con sé» (cf. Gv 19,27).

Dopo aver affidato sua Madre al discepolo amato, Gesù, consapevole del fatto che tutto è stato portato a compimento, dice per adempiere la Scrittura: «Ho sete». La sete di Gesù sulla croce presenta, innanzi tutto, un significato molto concreto: Gesù è agonizzante e la sua gola è riarsa. Tuttavia, nella sete di Gesù è presente anche un significato spirituale: Gesù ha sete della salvezza delle anime, dell’amore dell’umanità, dell’amore di ciascuno di noi.

In risposta all’esclamazione di Gesù, i soldati gli offrono una spugna imbevuta d’aceto: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (cf. Gv 19,30). L’espressione “consegnare lo spirito”, oltre ad affermare, ad un primo livello, la morte di Gesù, indica l’effusione da parte del Crocifisso di colui che è il dono per eccellenza e cioè lo Spirito Santo.

Tutto questo avviene nel giorno della Preparazione alla Pasqua. Durante la grande festa, non era possibile che vi fossero dei cadaveri esposti. Per questo, i Giudei chiedono a Pilato di far spezzare le gambe dei crocifissi per accelerarne la morte e deporli dalle croci. Venuti da Gesù, i soldati vedono che è già morto e decidono, perciò, di non spezzargli le gambe ma uno dei soldati gli trafigge il fianco con la lancia. Dal fianco aperto di Gesù fuoriesce un torrente di sangue e acqua. In questo modo – annota sempre San Giovanni – si compiono le Scritture: «Non gli sarà spezzato alcun osso» (cf. Es 12,46; Gv 19,36) e «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (cf. Zc 12,10; Gv 19,37).

Dal fianco aperto di Adamo dormiente nel giardino fu plasmata Eva, dal fianco aperto di Gesù, nuovo Adamo, dormiente sulla croce, nasce la Chiesa, la comunione di persone formata da coloro che, in forza del Battesimo (simboleggiato dall’acqua), appartengono a Cristo e per mezzo della comunione al suo Corpo ed al suo Sangue nell’Eucarestia (simboleggiata dal sangue) sono resi  sempre più conformi al Signore Gesù.

La prima citazione di compimento (cf. Gv 19,36) fa riferimento all’agnello pasquale di Es 12 ed indica in Gesù il vero agnello pasquale. Difatti, il suo fianco viene aperto nello stesso momento – all’ora nona – in cui gli agnelli pasquali vengono sgozzati nel Tempio. Ora che il vero Agnello pasquale è stato immolato, ora che Gesù ha consumato l’offerta di sé al Padre per noi, non è più necessario offrire sacrifici preparatori e sostitutivi. La seconda citazione (cf. Gv 19,37) è tratta dal profeta Zaccaria e indica in Gesù il Trafitto che è oggetto dello sguardo dell’umanità intera, uno sguardo di fede in cui è offerta agli uomini la salvezza (cf. Gv 3,14-15; Nm 21,4-9).

Maria è lì ai piedi della Croce, in piena comunione con l’offerta del suo Figlio, risplendendo ai nostri occhi come la vera discepola, in cammino con Gesù sulla via della vera gloria:

«Il rimanere con Lui anche quando sembra che tutto finisca o sia finito, rimanergli accanto come ha fatto Sua Madre: solo questa fedeltà ci porta, presto o tardi, all’esperienza che nessun uomo al di fuori della comunità cristiana può provare nel mondo: l’esperienza della Resurrezione»[15].

 

SCHEDA 4: LA GLORIA

4.1. La gloria nella Bibbia

 

Nell’Antico Testamento la gloria (in ebraico kabod) indica in senso fisico il “peso”, la “consistenza” e, in senso traslato l’importanza di qualcuno o di qualcosa.

La gloria è un attributo proprio di Dio, il quale è definito ’el hakkabod, “Dio di gloria” (cf. Sal 29,3) ed anche melek hakkabod, “re di gloria” (cf. Sal 24,7.9.10). Il suo regno è un regno di kabod ed hadar, cioè di gloria e splendore (cf. Sal 145,11). Non solo Israele ma tutti i popoli sono chiamati a tributare a Dio il kabod, la gloria (cf. Sal 66,1ss; Is 42,12).

Riferito a Dio, il kabod presenta un significato concreto ed indica la sua manifestazione sotto forma di un fuoco divorante da cui s’irradiano raggi e vampe di fuoco ed un significato metaforico, indicante “onore”, “dignità”, “maestà”, in una parola la sua “santità”, come appare nella solenne teofania di Is 6,1-4:

«1Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. 3Proclamavano l’uno all’altro, dicendo:

«Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!

Tutta la terra è piena della sua gloria».

4Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo».

 

Quanto più il pensiero teologico degli autori biblici andava approfondendo una concezione “immateriale” e “spirituale” di Dio, secondo cui Dio è Qadosh, cioè Santo, invisibile e trascendente rispetto alla natura, tanto più la parola kabod divenne un termine tecnico importante nel linguaggio teologico dell’Antico Testamento[16].

Nel Sacerdotale il termine kabod ricorre lì dove si parla della manifestazione di YHWH nella tenda (Es 29,43; 40,34ss; Lv 9,6.23; Nm 14,10; 16,19; 17,7; 20,6). Il kabod si materializza in un fuoco divorante circondato da una nube. Solo Mosè è autorizzato ad entrare all’interno di questa nube (Es 24,15-18), uscendone con il viso così risplendente da abbagliare coloro che provano a fissarlo in volto:

«29Quando Mosè scese dal monte Sinai – le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui. 30Ma Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui. 31Mosè allora li chiamò, e Aronne, con tutti i capi della comunità, tornò da lui. Mosè parlò a loro. 32Si avvicinarono dopo di loro tutti gli Israeliti ed egli ingiunse loro ciò che il Signore gli aveva ordinato sul monte Sinai. 33Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro, si pose un velo sul viso. 34Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando non fosse uscito. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. 35Gli Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore» (cf. Es 34,29-35).

Il profeta Ezechiele, in originale continuità con il Sacerdotale, applica al Tempio di Gerusalemme la categoria di kabod (cf. Ez 10,4; 43,2). Anche in Ezechiele, come nel Sacerdotale, la nube che avvolge il fuoco divorante che costituisce il nucleo del kabod ha la funzione di velare la visione diretta della divinità, visione che può essere mortale. Ezechiele vede, in occasione dell’esilio, il kabod abbandonare il Tempio:

«18La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. 19I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all’ingresso della porta orientale del tempio del Signore, mentre la gloria del Dio d’Israele era in alto su di loro» (cf. Ez 10,18-19).

In quanto «aspetto riconoscibile da parte dell’uomo dell’agire di YHWH, agire nel quale egli stesso diventa palese nella sua potenza» (R. Rendtorff)[17], il kabod rappresenta la maestà divina in senso ampio ed è spesso usato come sinonimo di panim (il volto di YHWH), tub (la bontà), ‘oz (la forza), hesed (la grazia), yesha‘ (la salvezza), come è evidente nell’apparizione di Dio a Mosè in Es 34,5-9 (cf. anche Es 33,18-23):

«5Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. 6Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, 7che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. 8Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. 9Disse: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità”».

 

In quanto rivelazione di Dio nella storia, la visione del kabod di Dio causa in chi ne è spettatore sentimenti di venerazione e di timore reverenziale.

Nella stragrande maggioranza dei casi, la rivelazione della gloria di Dio nell’Antico Testamento è riferita al presente della storia della salvezza. Vi sono, tuttavia, alcuni testi in cui il kabod può essere interpretato come riferito alla visione di Dio oltre la morte.

Tra di essi occupa un posto di primo piano il passo di Sal 73,23-24: «Ma io sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria».

La maggior parte degli esegeti (tra gli altri Rowley, Maag, Weiser, Schmitt) è concorde nel leggervi un riferimento ad una vita nell’aldilà, per cui congiungersi al kabod, significa essere preservati dallo Sheol, dal “mondo dei morti” e, come Elia ed Enoc, essere rapiti in cielo subito dopo la morte per vivere sempre nell’abbraccio di Dio, nella contemplazione del suo volto (cf. Sal 16,10; 17,15). Altri (tra cui Hansen) pensano ad un’esperienza di estasi, altri ancora (Mowinckel, Gunkel, Tournay) ad una promessa di benessere e fortuna in questa vita[18].

La categoria del kabod è decisiva anche per descrivere, nella letteratura profetica e nei Salmi, la futura salvezza d’Israele in Sion. Difatti, tale salvezza è rappresentata come la definitiva affermazione del kabod di Dio:

«2In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per i superstiti d’Israele. 3Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo: quanti saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme. 4Quando il Signore avrà lavato le brutture delle figlie di Sion e avrà pulito Gerusalemme dal sangue che vi è stato versato, con il soffio del giudizio e con il soffio dello sterminio, 5allora creerà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutti i luoghi delle sue assemblee una nube di fumo durante il giorno e un bagliore di fuoco fiammeggiante durante la notte, perché la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione, 6come una tenda sarà ombra contro il caldo di giorno e rifugio e riparo contro la bufera e contro la pioggia» (cf. Is 4,2-6; cf. anche Is 24,23).

Nella letteratura postesilica questa rivelazione finale del kabod di Dio assume delle dimensioni universali, capaci d’abbracciare tutti i popoli e tutto l’universo (cf. Is 2; 40,5; 52,10; Sal 97,6ss; 102, 16ss).

Passando ora ad esaminare l’uso del termine neotestamentario corrispondente a kabod e cioè doxa, vediamo che gli autori del Nuovo Testamento si collocano in forte continuità con l’uso biblico della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta ed in netta discontinuità rispetto al significato classico di doxa (opinio). Infatti, il termine doxa è riferito sempre a Dio ed al “divino”, cioè a quello che caratterizza la sua essenza e la sua azione nella storia.

Indubbiamente, per gli autori del Nuovo Testamento il passaggio decisivo fu l’attribuzione della doxa oltre che a Dio alla persona di Gesù (Rm 6,4; 1Tm 3,16; At 7,55; 1Pt 1,11; Eb 13,21; 1Pt 4,11; Ap 5,12). Nei passaggi sopracitati si fa riferimento alla glorificazione di Gesù nel suo passaggio pasquale di morte e risurrezione.

Da parte sua, San Giovanni evangelista descrive l’intera vita terrena di Gesù alla luce della sua gloria finale. La contemplazione di tale doxa è possibile solo grazie alla luce della pistis (fede): cf. Gv 1,14; 2,11; 11,40; 11,4.

Soffermiamoci sul passaggio cruciale del Prologo del quarto Vangelo, quello in cui l’evangelista afferma l’incarnazione del Verbo:

«E il Verbo si è fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi; / e noi abbiamo contemplato (nel senso di “visto e contemplato”) la sua gloria, / gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, / pieno di grazia e di verità» (cf. Gv 1,14).

La Gloria di Dio che, fino ad ora, non poteva essere vista dagli occhi dell’uomo, si rende visibile e tangibile in una carne, quella di Cristo. La parola greca per “carne” è sarx. Essa corrisponde all’ebraico basar e fa riferimento all’uomo nella sua fragilità e nella sua mortalità. Tanto la parola sarx quanto il verbo egeneto (si fece) escludono alla radice ogni falsa interpretazione dell’Incarnazione, intesa come semplice “apparire” della gloria del Logos (cioè del Verbo) nella carne. Al contrario, proprio la carne è la condizione della rivelazione: l’unica condizione permanente di rivelazione totale, tema questo che sarà ripreso ed approfondito nel c. 6 del quarto Vangelo.

Il verbo eskenosen («venne ad abitare») fa riferimento al drizzare la tenda. Così com’è, il verbo potrebbe indicare una dimora precaria, provvisoria. In realtà è evidente il riferimento alla shekinah (da shakan) alla presenza della Gloria di YHWH nel santuario mobile usato dai figli d’Israele nel cammino verso la terra promessa.

La Gloria, la realtà intima e nascosta di Dio, si rende pienamente visibile e conoscibile nell’unigenito del Padre, «pieno di grazia e di verità». L’endiadi «grazia e verità» charis kai aletheia esprime la quintessenza della gloria di Cristo. Quest’espressione non è d’origine greca ma ha la sua origine nel mondo antico-testamentario e corrisponde all’espressione hesed weemet, indicante l’amore misericordioso e fedele di Dio per il suo popolo. La gloria di Cristo è, dunque, in tutto e per tutto, la perfetta rivelazione ed il dono totale della gloria del Padre:

«16Dalla sua pienezza / noi tutti abbiamo ricevuto: / grazia su grazia. // 17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, / la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. // 18Dio, nessuno lo ha mai visto: / il Figlio unigenito, che è Dio / ed è nel seno del Padre, / è lui che lo ha rivelato» (cf. Gv 1,16-18).

 

Assieme all’attribuzione della gloria del Padre a Cristo, l’altro passaggio decisivo presente nel Nuovo Testamento è l’attribuzione della gloria di Cristo ai suoi discepoli. In particolare, gli autori del Nuovo Testamento affermano l’esistenza di un nesso causale diretto tra la Risurrezione di Cristo e la “risurrezione”a vita nuova dei fedeli, in altri termini tra la glorificazione di Cristo e quella dei suoi fedeli (cf. 1Pt 5,4.10; 1Ts 2,12; 2Ts 2,14; 2Cor 4,17; 2Tm 2,10; Rm 5,12; Mt 19,28).

Alla realtà escatologica futura, in cui i fedeli parteciperanno in pienezza alla gloria di Cristo, corrisponde un fatto che si è compiuto nella storia della salvezza (passato: cf. Rm 8,29) ed entrambe le dimensioni (passato e futuro) hanno i loro effetti di gloria sul presente. Il nesso tra le tre dimensioni della glorificazione è garantito dall’azione nella vita dei credenti dello pneuma tou theou, cioè dello Spirito di Dio (cf. Ef 3,16; 1Pt 4,14; spec. 2Cor 3,7ss).

In particolare, in 2Cor 3-4, riferendosi soprattutto al testo di Es 34,29-35, l’Apostolo afferma per prima cosa che la doxa di Mosè (cioè la gloria dell’antica alleanza) è incomparabilmente inferiore a quella di Cristo (che è la gloria della nuova allenza) e poi che la doxa kuriou, cioè “la gloria del Signore (Gesù)” trasforma i credenti “di gloria in gloria” (2Cor 3,18), ad immagine del volto di Cristo (cf. 2Cor 4,6):

 

4.2. I misteri della gloria

 

La radice della gloria di Dio nella persona di Cristo è la Risurrezione (primo mistero). Essa è, infatti, la manifestazione totale e definitiva della divinità di Gesù e della sua signoria sul tempo e sulla storia.

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5-6). Il Cristianesimo è tutto in questo fatto, in questo avvenimento: Gesù è risorto. Affermare che Gesù è risorto significa affermare che Gesù è vivo per sempre ed abita ogni frammento della realtà con la potenza della sua vita risorta. E se è presente, se è vivo, è incontrabile.

Ricordiamo tutti la radicale affermazione di Papa Benedetto XVI al primo numero della sua prima encliclica Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un Avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[19].

L’aspetto più sorprendente del Cristianesimo è che l’Avvenimento non è relegato nell’ambito dello straordinario, di ciò che è extra, fuori dall’ordinario, ma al contrario si è fatto familiare, abituale.

Poiché l’annuncio della Risurrezione è l’annuncio della Presenza di Cristo, tutto il problema della nostra vita consiste nel divenire capaci di riconoscerlo, di incontrarlo. E questo avviene grazie alla fede. La fede, infatti, non è un giudizio su un’altra realtà, su un altro mondo, su un mondo che verrà o che si trova mille miglia sopra le nostre teste. La fede cristiana è un giudizio su questa realtà e su questo mondo ed è questo giudizio che permette di vincere il mondo (cf. 1Gv 5,4-5), perché riconosce in noi la presenza e l’azione di Cristo Risorto. Difatti, la Risurrezione di Cristo ci ha toccati e trasformati realmente attraverso il Battesimo e sempre di nuovo ci raggiunge attraverso la vita della Chiesa, inserendoci in una nuova dimensione, quella dei figli di Dio, di uomini cioè chiamati a vivere in comunione con Dio, in un rapporto di figliolanza, di alleanza, finanche di familiare intimità con l’Altissimo, con l’Infinito Mistero che ha fatto tutte le cose.

Nella stupenda avventura della fede, un aiuto prezioso ed irrinunciabile ci viene dalla Madonna. La Madonna è stata scelta da Dio per essere la Madre del Figlio di Dio fatto uomo. Senza Maria non esiste cristianesimo, perché in Lei, nella sua carne verginale, il Verbo si è fatto carne. Donandoci sempre di nuovo il suo Figlio, la Vergine Santa apre il nostro cuore alla letizia ed alla pace perché ci aiuta a riconoscere nel volto del Figlio suo il compimento di quell’esigenza di infinito, che costituisce la stoffa di cui siamo fatti.

 

Che la signoria di Cristo non riguardi solo la nostra anima, la nostra esistenza individuale ma abbracci l’universo, la realtà nella sua totalità è conseguenza dell’evento che contempliamo nel secondo mistero: l’Ascensione di Gesù al Cielo. L’Ascensione di Gesù è l’icona della sua perfetta glorificazione e della sua sovranità su tutto l’universo:

«Tutto infatti il Padre ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1,22-23).

Le parole dell’Apostolo mettono in evidenza il risvolto antropologico dell’ascensione di Gesù. Infatti, con l’umanità di Gesù, è la nostra umanità ad essere glorificata.

Ecco perché, nell’Apocalisse, il Primo e l’Ultimo, il Vivente che ha in mano le sette chiese (cf. Ap 1,17-20) afferma:

«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre sul suo trono» (cf. Ap 3,20-21).

 

L’artefice della glorificazione dell’uomo in Cristo è lo Spirito Santo, al centro della nostra contemplazione nel terzo mistero, dedicato al dono dello Spirito a Pentecoste. La Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste sono tre momenti dell’unico e medesimo Mistero: la Pasqua di Cristo. Cristo Risorto, asceso alla gloria del Padre come Signore dell’Universo, effonde in comunione con il Padre lo Spirito Santo, l’artefice d’ogni santificazione, colui che viene a rinnovare la terra attraverso la Chiesa, la comunione di persone in mezzo alla quale Gesù sta ed opera:

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (cf. Gv 20,19-23).

Nel mondo devastato dal peccato e dalla violenza, lo Spirito Santo fa riaccadere il miracolo dell’unità e della concordia. Il peccato, la menzogna, la folle pretesa di costruire la città dell’uomo senza Dio producono Babele, producono la città della divisione, dell’incomunicabilità e della discordia. Lo Spirito, invece, costruisce una nuova città per l’uomo, la città di Dio, in cui gli uomini possono incontrarsi nella concordia e nella pace:

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano. (…) Tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore la folla si radunò e rimase turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» (cf. At 2,1-8).

 

In diretta continuità con i tre misteri precedenti sono il quarto ed il quinto mistero in cui contempliamo la glorificazione di Maria Santissima nella sua assunzione al cielo in anima e corpo e nella sua regalità sull’universo:

«A questa gloria che, con l'Ascensione, pone il Cristo alla destra del Padre, Ella stessa sarà sollevata con l'Assunzione, giungendo, per specialissimo privilegio, ad anticipare il destino riservato a tutti i giusti con la risurrezione della carne. Coronata infine di gloria – come appare nell'ultimo mistero glorioso – Ella rifulge quale Regina degli Angeli e dei Santi, anticipazione e vertice della condizione escatologica della Chiesa»[20].

Le parole del beato Giovanni Paolo II ci fanno comprendere quanto gli ultimi due misteri siano profondamente collegati al Mistero di Cristo e quanto presentino degli importantissimi risvolti per ciascuno di noi.

Infatti, il destino di Maria è compimento del destino di Cristo e nel destino di Cristo e di Maria, il nuovo Adamo e la nuova Eva, noi contempliamo il pieno compimento del destino che, tutti, abbiamo ricevuto nel Battesimo:

«Con il mistero dell’Assunzione il Signore dice: “Vedete, io non vi farò perdere niente di quello che vi ho dato, di quello che avete usato, di quello che avete gustato, persino di quello che avete usato male, se voi sarete umili di fronte a me” (…). La glorificazione del corpo della Madonna indica l’ideale della moralità cristiana, la valorizzazione di ogni momento, il valore di ogni istante. (…) È la valorizzazione della nostra vita terrena, non perché fortunata per particolari circostanze, ma perché attraverso ogni cosa più piccola si veicola il nostro rapporto con l’Infinito, con il mistero di Dio»[21].

Gli ultimi due misteri gloriosi ci portano a fissare gli occhi della fede sulla meta del nostro pellegrinaggio terreno: il Paradiso.

Lì Maria, l’umile fanciulla di Nazaret chiamata ad essere la Madre di Dio, risplende della bellezza infinita della grazia di Dio quale Regina degli angeli e dei santi. Per noi che viviamo giorno per giorno le fatiche del cammino cristiano, la Vergine Maria brilla come pegno di sicura speranza[22].

In Maria Assunta in Cielo ed incoronata Regina del cielo e della terra, noi possiamo contemplare come già avvenuto quanto avverrà, alla fine dei tempi, a tutti coloro che si sono addormentati in Cristo. Riconoscere in comunione con tutta la Chiesa l’Assunzione della Vergine Santa in anima e corpo significa, pertanto, affermare tutto lo spessore della speranza cristiana. Noi non crediamo semplicemente in una qualche sopravvivenza al di là della morte, noi crediamo nella risurrezione della carne, nell’immortalità di tutto l’uomo che è fatto di anima e corpo. Nella Madonna assunta al Cielo, si manifesta il progetto di vita e di vita piena, totale, eterna per il quale siamo stati creati da Dio.

La contemplazione della gloria di Maria ci distrae dal cammino d’ogni giorno. Al contrario, proprio questa contemplazione infonde energia alla nostra vita perché fa della nostra esistenza non un vagabondaggio senza meta ma un cammino illuminato dalla speranza ed orientato verso un compimento glorioso, che non è riposto in un lontano futuro ma che è offerto a noi qui ed ora:

«La nostra vita cerca la gloria perché è fatta per essa e la gloria non è qualcosa promesso per l’avvenire, ma è una promessa già cominciata e già adempiuta; e che si compie per noi nella misura in cui la nostra persona si offre e riconosce che la consistenza di tutto è Cristo»[23].

 


[1] Cf. Enarrationes in Psalmos 93,24.

[2] Cf. Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, 20.

[3] Cf. Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, 20.

[4] Cf. P. Gironi, “Luce / tenebre”, Nuovo Dizionario di Teologia Biblica (Cinisello Balsamo 1988, 51994) 860.

[5] Cf. Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, 21.

[6] La rivelazione di Dio, la sua attestazione nella storia avviene, come ci insegna la Dei Verbum (la costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione)– «con eventi e parole intimamente connessi tra loro (= gestis verbisque intrinsece inter se connexis), in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto». Cf. Dei Verbum, num. 2.

[7] Cf. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 55.

[8] Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, 21.

[9] Cf. A. Bonora, «male / dolore», Nuovo Dizionario di Teologia Biblica (Cinisello Balsamo 1988) 871.

[10] A proposito dell’identità dell’orante del Sal 22(21) sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. I nomi proposti dagli studiosi sono Davide (come indicato dal titolo del salmo), Ezechia (in riferimento alla miracolosa liberazione di Gerusalemme dalle truppe di Sennacherib a seguito della supplica rivolta dal re a YHWH; cf. Is 36-37; 2Re 18,13 – 19,37; 2Cr 32,9-23), il profeta Isaia, il profeta Geremia o un suo emulo, un contemporaneo del re Manasse che subisce il disprezzo dei suoi concittadini perché si oppone al sincretismo favorito dallo stesso Manasse. Per l’antica esegesi rabbinica, l’orante del Sal 22(21) rappresenta Israele, il Popolo-Messia sempre messo a morte e sempre richiamato alla vita. Per la tradizione cristiana (dagli evangelisti in poi) è sempre stata naturale ed immediata l’identificazione con il Cristo crocifisso e risorto.

[11] Questo gesto fa riferimento all’antica usanza, presente già nel diritto assiro e recepita poi anche dallo ius romanum, del “diritto di spoliazione di cui godevano i vincitori sui vinti. In realtà, qui si va persino oltre: la morte dell’orante è data a tal punto per scontata che i suoi nemici possono impadronirsi a man bassa persino delle sue vesti: è come la consacrazione, anche giuridica, della loro vittoria e della totale sconfitta dell’orante, che assiste impotente allo scempio della propria vita, il più grande e prezioso dei beni ricevuti da Dio (cf. v. 21).

[12] «Nullus est, fuit vel erit homo, pro quo passus non fuerit». Cf. Concilio di Quierzy (853), citato al n. 605 del Catechismo della Chiesa Cattolica.

[13] Cf. Gn 9,4; Dt 12,16.23; Sal 30(29),10.

[14] Afferma in proposito il Catechisimo della Chiesa Cattolica: «È l’amore “sino alla fine” (Gv 13,1) che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo. Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell’offerta della sua vita»cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 616.

[15] Cf. L. Giussani, Il Santo Rosario (Cinisello Balsamo, 22005) 28-29

[16] Cf. G. Von Rad, «doxa», Grande Lessico del Nuovo Testamento (ed. G. Kittel – G. Friederich) (Brescia 1966), vol. 2, p. 1361.

[17] Cf. M. Weinfeld, «kābôd», Grande Lessico dell’Antico Testamento (ed. G.J. Botterweck – H. Ringgren – H.-J. Fabry) (Brescia 2004), vol. 4, p. 198.

[18] Cf. M. Weinfeld, «kābôd», Grande Lessico dell’Antico Testamento, vol. 4, p. 199.

[19] Cf. Benedetto XVI, Deus caritas est, 1.

[20] Cf. Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, 23.

[21] Cf. L. Giussani, I misteri del Rosario (Cinisello Balsamo 22005) 39-40.

[22] Cf. Lumen gentium, n. 68.

[23] Cf. L. Giussani, I misteri del Rosario (Cinisello Balsamo 22005) 41.

Ultimo aggiornamento Martedì 22 Gennaio 2013 13:48